La così definita concordia ordinum è il primo progetto politico presentato da Cicerone nella Pro lege Manilia, progetto che molte volte ha provocato nella critica un’accusa di ipocrisia e opportunismo: l’Arpinate, infatti, il quale si definiva fervente sostenitore della mos maiorum e delle istituzioni repubblicane, nell’orazione deliberativa del 66 a.C proponeva, per portare a termine la guerra contro Mitridate re del Ponto, di affidare poteri straordinari a un’unica persona, Pompeo, il che minava il principio di collegialità che aveva caratterizzato per secoli l’ordine della res publica. Tuttavia, un’analisi più filociceroniana porterebbe a evidenziare come l’oratore abbia agito in tal modo proprio per il bene dello stato, per portare avanti un piano più ampio: nell’affidare poteri speciali a Pompeo si sarebbe scongiurato il pericolo della perdita di ricchi territori nei quali molti commercianti avevano investito e che in quanto a tasse costituivano un’ingente entrata, evitando così un tracollo economico insostenibile per il ceto equestre. Favorendo dunque questo ceto, Cicerone sperava di vederlo alleato con la nobiltà (il che viene appunto definito concordia ordinum), per poter riprendere le redini dello stato e risolvere con decisioni comuni il periodo di crisi della repubblica.
Il secondo progetto politico portato avanti dall’Arpinate, ed esposto nell’orazione Pro Sestio, prevede un ampliamento della categoria di cittadini che possono concorrere alla presa di decisioni per lo stato: questi sono da individuare nei boni, “razza” di uomini benestanti, propensi al bene, che coinvolge i vari ordini sociali, dai senatori ai figli dei liberti.