Pro Murena 60-63

Testo latino

[60] Ego tuum consilium, Cato, propter singulare animi mei de tua virtute iudicium vituperare non possum; non nulla forsitan conformare et leviter emendare possim. “Non multa peccas,” inquit ille fortissimo viro senior magister, “sed peccas; te regere possum.” At ego non te; verissime dixerim peccare te nihil neque ulla in re te esse huius modi ut corrigendus potius quam leviter inflectendus esse videare. Finxit enim te ipsa natura ad honestatem, gravitatem, temperantiam, magnitudinem animi, iustitiam, ad omnes denique virtutes magnum hominem et excelsum. Accessit istuc doctrina non moderata nec mitis sed, ut mihi videtur, paulo asperior et durior quam aut veritas aut natura patitur.

[61] Et quoniam non est nobis haec oratio habenda aut in imperita multitudine aut in aliquo conventu agrestium, audacius paulo de studiis humanitatis quae et mihi et vobis nota et iucunda sunt disputabo. In M Catone, iudices, haec bona quae videmus divina et egregia ipsius scitote esse propria; quae non numquam requirimus, ea sunt omnia non a natura verum a magistro. Fuit enim quidam summo ingenio vir, Zeno, cuius inventorum aemuli Stoici nominantur. Huius sententiae sunt et praecepta eius modi. Sapientem gratia numquam moveri, numquam cuiusquam delicto ignoscere; neminem misericordem esse nisi stultum et levem; viri non esse neque exorari neque placari; solos sapientes esse, si distortissimi sint, formosos, si mendicissimi, divites, si servitutem serviant, reges; nos autem qui sapientes non sumus fugitivos, exsules, hostis, insanos denique esse dicunt; omnia peccata esse paria; omne delictum scelus esse nefarium, nec minus delinquere eum qui gallum gallinaceum, cum opus non fuerit, quam eum qui patrem suffocaverit; sapientem nihil opinari, nullius rei paenitere, nulla in re falli, sententiam mutare numquam.

[62] Hoc homo ingeniosissimus, M Cato, auctoribus eruditissimis inductus adripuit, neque disputandi causa, ut magna pars, sed ita vivendi. Petunt aliquid publicani; cave ne quicquam habeat momenti gratia. Supplices aliqui veniunt miseri et calamitosi; sceleratus et nefarius fueris, si quicquam misericordia adductus feceris. Fatetur aliquis se peccasse et sui delicti veniam petit; “nefarium est facinus ignoscere. At leve delictum est. ”Omnia peccata sunt paria. Dixisti quippiam: “fixum et statutum est. Non re ductus es sed opinione; ”sapiens nihil opinatur. Errasti aliqua in re; male dici putat. Hac ex disciplina nobis illa sunt: “Dixi in senatu me nomen consularis candidati delaturum.” Iratus dixisti. “Numquam” inquit “sapiens irascitur. At temporis causa. ”“Improbi” inquit “hominis est mendacio fallere; mutare sententiam turpe est, exorari scelus, misereri flagitium.”

[63] Nostri autem illi (fatebor enim, Cato, me quoque in adulescentia diffisum ingenio meo quaesisse adiumenta doctrinae) nostri, inquam, illi a Platone et Aristotele, moderati homines et temperati, aiunt apud sapientem valere aliquando gratiam; viri boni esse misereri; distincta genera esse delictorum et disparis poenas; esse apud hominem constantem ignoscendi locum; ipsum sapientem saepe aliquid opinari quod nesciat, irasci non numquam, exorari eundem et placari, quod dixerit interdum, si ita rectius sit, mutare, de sententia decedere aliquando; omnis virtutes mediocritate quadam esse moderatas.

Traduzione

[60] L’altissima opinione che io, Catone, mi sono formato dentro di me della tua virtù, mi pone nell’impossibilità di biasimare l’atteggiamento che nella tua saggezza adotti, ma rettificare in qualche particolare e apportarvi qualche leggero ritocco probabilmente lo potrei. “Non avviene spesso che tu commetta errori”, diceva quel venerando maestro al forte guerriero “ma sì che ne commetti, potrei correggerli”. Ma non io te, sarei assolutamente nel vero dicendo che tu di errori non ne commetti mai e che in nessuna circostanza ti comporti in modo tale da pensare che tu abbia bisogno di una vera correzione, piuttosto che di un leggero ammorbidimento. Perché è stata proprio la tua natura a indirizzarti alla virtù, all’austerità, alla moderazione, alla grandezza d’animo, alla giustizia, in una parola a farti grande ed eccelso in rapporto a tutte le virtù. A queste doti si è aggiunto, però, un sistema filosofico che non conosce né la moderazione né la dolcezza, ma è, almeno a mio parere, un po’ più rigido e duro di quanto lo consenta la realtà della vita o la naturale indole dell’uomo.

[61] E dal momento che questa mia arringa non devo tenerla né davanti a una folla ignorante, né in una riunione di rozzi contadini, mi prenderò un po’ di libertà e mi occuperò di quegli studi liberali che voi, come me, conoscete e amate. Sappiate, signori giurati, che queste doti che noi vediamo in Catone, fuori dal comune e più che umane, sono in lui innate; quelle invece di cui talora lamentiamo la mancanza, derivano tutte non già da inclinazioni naturali, ma dal suo maestro. Visse infatti un tempo un uomo dal grande ingegno, Zenone, e i seguaci delle sue dottrine vengono chiamati Stoici. Ecco alcuni esempi di sue massime e suoi insegnamenti: il saggio non subisce mai l’influenza di nessuno e né perdona mai la colpa di nessuno; non c’è uomo compassionevole che non sia sciocco e superficiale; non è degno di un vero uomo lasciarsi vincere e placare dalle preghiere; solo i saggi sono belli, pur se completamente deformi, ricchi, pur se assolutamente indigenti re, se pur in stato di schiavitù; noi, invece, che saggi non siamo, ecco come ci chiamano: schiavi, ribelli, esuli, nemici e per finire pazzi. E continuano: tutte le colpe sono uguali; ogni mancanza è un’orribile scelleratezza, e strozzare senza necessità un gallo che ci vive in casa, equivale, come delitto, strozzare il proprio padre; l saggio non fa mai delle semplici congetture, non si pente mai, non sbaglia mai, non cambia mai opinione.

[62] Eccola dottrina fatta propria con vero ardore da un uomo pieno di ingegno qual è Marco Catone sotto l’autorevole guida di dottissimi maestri, e non già per farne oggetto di discussione filosofiche, ma per tradurle in sostanza di vita. Gli appaltatori delle imposte presentano elle richieste: “Bada bene che l’influenza personale non abbia alcun peso”. Vengono a chiedere supplichevolmente aiuto dei poveracci, colpiti da qualche disgrazia: “Sarai uno scellerato e un criminale se farai qualcosa sotto la spinta della compassione”. Uno confessa una sua colpa e di essa chiede perdono: “È un terribile misfatto perdonare!”. E all’obiezione che si tratta di una colpa leggera: “Tutte le mancanze sono uguali”. Hai detto qualcosa: “È una decisione definitiva e irrevocabile”. A parlare non ti ha indotto la realtà delle cose, ma una congettura: “Il saggio non fa congetture”. Ti sei sbagliato su qualche cosa: se la prende come per un insulto. È da questo sistema filosofico che ci vengono affermazioni come la seguente: “Ho detto in senato che avrei sporto denuncia contro un candidato al consolato”. L’hai detto in un momento d’ira: “Giammai”, egli ribatte “il saggio si adira”. Ma allora l’hai detto sotto la spinta delle circostanze: “No” egli ribatte “è proprio di un disonesto ingannare con la parola è una vergogna mutare opinione, è un delitto cedere alle preghiere, è un’infamia avere compassione”.

[63] Questi nostri maestri, invece (sì, Catone, ti confesserò che anch’io, quand’ero giovane, non avendo troppa fiducia nelle mie doti naturali, cercai l’aiuto della filosofia); quei nostri maestri, ripeto, che si rifanno a Platone e Aristotele, sono dei modelli di moderazione e misura; ecco alcune loro massime: sul saggio il prestigio esercita talora la sua influenza; per l’uomo buono è un dovere essere misericordioso; di colpe ci sono diverse categorie e quindi disuguali sono le pene; l’uomo coerente nei suoi principi è sensibile al perdono; persino in saggio non di rado fa congetture su ciò che ignora; qualche volta si fa prendere dall’ira; inoltre si lascia vincere e placare dalle preghiere; talora, sempre che così sia meglio, rettifica la sua affermazione e capita pure che cambi opinione; tutte le virtù trovano il loro temperamento nel giusto mezzo.