Nell’exordium della prima verrina Ciceroone mantiene un tono poco concitato (a differenza di quanto farà in quello della catilinaria) volto principalmente sul probare che non sul movere e concentrandosi principalmente sull’ opinio comune riguardante la corruzione dell’ordine senatorio: è così che la condanna di Verre si tramuta in un simbolo di riscatto dell’immagine pubblica dei quiriti.
[1] Quod erat optandum maxime, iudices, et quod unum ad invidiam vestri ordinis infamiamque iudiciorum sedandam maxime pertinebat, id non humano consilio, sed prope divinitus datum atque oblatum vobis summo rei publicae tempore videtur. Inveteravit enim iam opinio perniciosa rei publicae, vobisque periculosa, quae non modo apud populum Romanum, sed etiam apud exteras nationes, omnium sermone percrebruit: his iudiciis quae nunc sunt, pecuniosum hominem, quamvis sit nocens, neminem posse damnari. Nunc, in ipso discrimine ordinis iudiciorumque vestrorum, cum sint parati qui contionibus et legibus hanc invidiam senatus inflammare conentur, [reus] in iudicium adductus est [C. Verres], homo vita atque factis omnium iam opinione damnatus, pecuniae magnitudine sua spe et praedicatione absolutus. Huic ego causae, iudices, cum summa voluntate et expectatione populi Romani, actor accessi, non ut augerem invidiam ordinis, sed ut infamiae communi succurrerem. Adduxi enim hominem in quo reconciliare existimationem iudiciorum amissam, redire in gratiam cum populo Romano, satis facere exteris nationibus, possetis; depeculatorem aerari, vexatorem Asiae atque Pamphyliae, praedonem iuris urbani, labem atque perniciem provinciae Siciliae. De quo si vos vere ac religiose iudicaveritis, auctoritas ea, quae in vobis remanere debet, haerebit; sin istius ingentes divitiae iudiciorum religionem veritatemque perfregerint, ego hoc tam adsequar, ut iudicium potius rei publicae, quam aut reus iudicibus, aut accusator reo, defuisse videatur.
[1] Sembra che l’occasione che soprattutto si doveva scegliere, o giudici, e che sola era utile a placare l’ostilità del vostro ordine e il discredito dei giudici, non fosse data da una decisione umana, ma quasi da una volontà divina, e fosse stata offerta a voi nel più critico momento della repubblica. Infatti ormai questa opinione dannosa per la repubblica pericolosa per voi, che va spargendosi non solo presso il popolo romano, ma anche presso le nazioni estere mediante il vociare di tutti, si è radicata: che in questi processi che ora vi sono, nessun uomo provvisto di denaro, sebbene sia dannoso (per lo stato), possa essere condannato. Ora, nella crisi stessa dell’ordine e dei vostri giudici, essendo preparati coloro che tentano di infiammare questa ostilità del senato mediante assemblee e proposte di legge, fu addotto in giudizio l’imputato Caio Verre, uomo già condannato dalla vita e dalle azioni secondo l’opinione di tutti, assolto secondo la (sua) speranza e il (suo) parlare per la sua grande quantità di denaro. Io, giudici, mi sono presentato come actor [pubblico ministero] di questa causa, con grandissimo volere e aspettativa del popolo romano, non per accrescere l’ostilità dell’ordine (senatorio), ma per venire in aiuto al discredito comune. Ho infatti addotto (in giudizio) un uomo mediante il quale potete ristabilire la perduta fama dei giudici, ritornare in grazia con il popolo romano, fare abbastanza per le nazioni estere, (un uomo) ladro dell’erario, tormentatore in Asia e Panfilia,predone della giustizia urbana [della giustizia amministrata da lui come pretore urbano], rovina e danno della provincia di Sicilia. E se voi vi pronuncerete in modo veritiero e diligente sulla qual cosa, rimarrà saldo quel potere che deve restare in voi; se invece le ingenti ricchezze infrangeranno lo scrupolo e la veridicità delle sentenze, io raggiungerò lo scopo in modo tale che sembri che sia mancato giudizio più alla repubblica, che all’imputato in giudizio o all’accusatore dell’imputato.
Adornata di brillante ironia antifrastica, in questo brano Cicerone descrive la vita lussusa condotta da Verre (a spese dei siciliani) e l’amministazione corrotta della giustizia.
[26] Itinerum primum laborem, qui vel maximus est in re militari, iudices, et in Sicilia maxime necessarius, accipite quam facilem sibi iste et iucundum ratione consilioque reddiderit. Primum temporibus hibernis ad magnitudinem frigorum et tempestatum vim ac fluminum praeclarum hoc sibi remedium compararat. Vrbem Syracusas elegerat, cuius hic situs atque haec natura esse loci caelique dicitur ut nullus umquam dies tam magna ac turbulenta tempestate fuerit quin aliquo tempore eius diei solem homines viderint. Hic ita vivebat iste bonus imperator hibernis mensibus ut eum non facile non modo extra tectum, sed ne extra lectum quidem quisquam viderit; ita diei brevitas conviviis, noctis longitudo stupris et flagitiis continebatur.
[27] Cum autem ver esse coeperat—cuius initium iste non a Favonio neque ab aliquo astro notabat, sed cum rosam viderat tum incipere ver arbitrabatur—dabat se labori atque itineribus; in quibus eo usque se praebebat patientem atque impigrum ut eum nemo umquam in equo sedentem viderit. Nam, ut mos fuit Bithyniae regibus, lectica octaphoro ferebatur, in qua pulvinus erat perlucidus Melitensis rosa fartus; ipse autem coronam habebat unam in capite, alteram in collo, reticulumque ad naris sibi admovebat tenuissimo lino, minutis maculis, plenum rosae. Sic confecto itinere cum ad aliquod oppidum venerat, eadem lectica usque in cubiculum deferebatur. Eo veniebant Siculorum magistratus, veniebant equites Romani, id quod ex multis iuratis audistis; controversiae secreto deferebantur, paulo post palam decreta auferebantur. Deinde ubi paulisper in cubiculo pretio non aequitate iura discripserat, Veneri iam et Libero reliquum tempus deberi arbitrabatur.
[26] Per prima cosa, giudici, ascoltate quanto costui abbia reso facile e piacevole per sé con ragione e avvedutezza uno sforzo di viaggi, che è sia massimo in ambito militare, sia estremamente necessario in Sicilia. Per primo si era procurato durante il periodo invernale quello famosissimo rimedio all’ingenza del freddo, alla forza delle tempeste e dei fiumi. Aveva scelto la città di Siracusa, della cui posizione e natura del luogo e del cielo si dice siano tali che non vi fu giammai alcun giorno di tanto grande e turbolenta tempesta, che gli uomini non abbiano visto per qualche tempo il sole quel giorno. Qui così viveva questo buon imperator nei mesi invernali, (tanto che) non solo uno non lo vedeva facilmente fuori di casa, ma neanche fuori dal letto; così erano arginate la brevità del giorno con banchetti, la lunghezza della notte con stupri e scelleratezze.
[27] Quando tuttavia iniziava a esserci la primavera—l’inizio della quale costui notava non dal Favonio o da un altro vento, ma riteneva che iniziasse la primavera quando vedeva una rosa—si dava alla fatica dei viaggi, nei quali si presentava paziente e attivo a tal punto che nessuno l’ha mai visto seduto a cavallo. Infatti, come fu d’abitudine per i re di Bitinia, era trasportato in una lettiga portata da otto persone, nella quale vi era un cuscino di stoffa trasparente di Malta imbottito di (petali di) rosa; lo stesso inoltre aveva in capo una corona, un’altra al collo, e si protendeva al naso una reticella di sottilissimo lino dalle maglie minute, piena di (petali di) rosa. Così, portato a termine il viaggio, quando giungeva in una qualche città, era fatto scendere dalla lettiga stessa sino al letto. Avete udito da molti giurati che a questo accorrevano i magistrati dei siciliani, venivano i cavalieri dei romani; i dibattiti erano tenuti in segreto, poco dopo venivano emessi palesemente dei decreti. Quindi, una volta che aveva diviso in poco tempo nel letto i poteri secondo prezzo e non secondo giustizia, riteneva ormai che il tempo restante fosse dovuto a Venere e Bacco.
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